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Kant, "Critica della ragion sciatica", Laverza 2019

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Sebbene avesse giurato di essere ormai in pensione nelle pagine conclusive della "Critica dell'ospizio", sul finire del 1803 il filosofo di Königsberg pubblica un'opera che è un trionfo di senilità, diciamo a livello del tardo Woody Allen. L'ultimo Kant, ormai ben lontano dalla verve di "Che cos'è l'illusionismo?" e dalla vis polemica della "Critica del ju-jitsu", comprende faticosamente quel che è ovvio per chiunque abbia provato dolori lombari: che il mal di schiena è profondamente e inconfutabilmente reale, inafferrabile nella sua essenza ma impossibile da ignorare - in altre parole, è il noumeno - e non c'è altra saggezza pratica se non quella riassunta nell'imperativo categorico di trovare una posizione che eviti di provare una sofferenza universale. Il libro si conclude con le parole che sigilleranno la sua tomba: «due cose riempiono l'anima di ammirazione, il cielo stellato sopra di me e l'analgesico dentro di me»...